L’improbabile fiore all’occhiello della riforma del mercato del lavoro
L´Italia è uno dei paesi occidentali con un divario di genere tra i più alti, a tutti i livelli: nei tassi di partecipazione al mercato del lavoro, nel divario salariale a parità di titolo di studio e di mansione, nelle possibilità di carriera, nei ruoli dirigenziali e di potere, nella divisione del lavoro familiare. È un divario aggravato dalle disuguaglianze territoriali e dalle disparità legate a condizioni economiche, culturali e sociali.
Nel nostro paese lavora il 46% delle donne, spesso impiegate in lavori precari e con sistemi di tutele inesistenti per quanto riguarda la maternità e la malattia, con stipendi inferiori del 20-30 % rispetto a quelli dei colleghi. Si potrebbe pensare che stare a casa incentivi il tasso di natalità, ma non è così: la media di disoccupazione femminile italiana è tra le più alte in Europa e il tasso di natalità è tra i più bassi.
Le donne escono dal mondo del lavoro a causa della maternità: il tasso di occupazione femminile cala di 5 punti dopo il primo figlio, di 10 dopo il secondo, del 23 dopo il terzo. Le ragioni di questo abbassamento sono molteplici e vanno dalle dimissioni forzate al mobbing, dalla mancanza di asili nido (coprono l’11,3 % dei nati) all’assenza di una rete di supporto sociale e familiare.
Le donne costituiscono la grande maggioranza dei lavoratori scoraggiati, dei disoccupati invisibili, di coloro che vorrebbero lavorare ma non cercano più un impiego e spesso si arrabattano tra un lavoretto e l´altro. Se includiamo queste figure, che coinvolgono oltre un milione di donne nel Mezzogiorno, il tasso di disoccupazione femminile effettivo sale al 30,6%, il doppio di quello ufficiale.
I pochi bambini/e che nascono sono soprattutto figli di lavoratori subordinati con contratti a tempo indeterminato: mette al mondo un figlio il 19% delle donne con contratto atipico contro il 31% di chi ha un posto fisso (tra i 25 e i 34 anni). Ennesima prova della vacuità del mito della flessibilità, che non riesce a conciliare i tempi di lavoro con quelli dell’allattamento, degli orari di entrata e uscita dalle scuole, delle malattie e delle visite dai pediatri.
Bastano già questi pochi dati per capire la vastità del problema e l’arretratezza culturale che caratterizza il nostro paese: se hai un figlio/a devi concentrarti su di lui anche se hai un master e un dottorato, oppure, se hai delle ambizioni professionali e ti stai costruendo una carriera, meglio precluderti il desiderio e l’immaginazione da subito, tanto non ti potresti concedere il privilegio della maternità.
In Europa e non solo, anche in questa epoca di precarizzazione del lavoro e di crisi economica, l’aut aut I figli o il lavoro non raggiunge dimensioni tanto drammatiche e anche le nuove generazioni riescono a superare con fluidità il passaggio lavoro-maternità-lavoro, senza incappare in licenziamenti o gravi intoppi. Welfare e diritti legati alla materiale organizzazione del lavoro, parità di salario tra uomo e donna, maternità retribuita garantita, asili statali accessibili, flessibilità di orario al rientro dalla maternità, promozione culturale di una equa suddivisione tra i generi dei lavori di cura, misure positive diDiversity Management sono gli strumenti più diffusi in Europa e di cui l’Italia è provvista. Sono misure semplici che ci aspetteremmo fossero introdotte all’interno di una riforma del mercato del lavoro, tanto più se questa viene redatta da una ministra che ha anche la delega alle Pari Opportunità.
Si dice che la riforma del mercato del lavoro preveda misure a sostegno delle Pari Opportunità. In particolare il riferimento è all’articolo 55 del ddl che definisce le nuove regole contro le dimissioni in bianco, l’abuso di potere che viene compiuto nei confronti delle giovani lavoratrici (far firmare in anticipo, al momento dell’assunzione, le proprie dimissioni, che saranno completate con la data nel caso di malattia, infortunio o maternità). Ma di questo articolo, come degli altri del resto, non c’è da andare così fieri, per almeno quattro ragioni.
La prima, l’articolo 55 è un avanzamento che non eguaglia il risultato che si era ottenuto con la legge 188: le nuove procedure sono volte a correggere l’eventuale abuso della firma in bianco ma non a prevenirlo, come invece faceva la legge 188/2007, e nel provvedimento non c’è più traccia del riferimento al licenziamento per motivi discriminatori. La seconda, in caso di abuso la sanzione è solamente amministrativa: “Salvo che il fatto costituisca reato, il datore di lavoro che abusi del foglio firmato in bianco al fine di simulare le dimissioni o la risoluzione consensuale è punito con la sanzione amministrativa da 5000 a 30.000 euro…» (comma 8 dell’art. 55). La terza, il continuo riferimento al “datore di lavoro” fa pensare che l’ambito della norma si riferisca solo al rapporto di lavoro subordinato. La quarta, l’onere della prova è a carico della lavoratrice, questa deve dimostrare che la firma della lettera di dimissioni è stata richiesta al momento dell’assunzione (comma 6 dell’art. 55).
Per non parlare del contesto generale: le dimissioni in bianco sono un fenomeno inaccettabile in un paese civile e dichiararne l’illegalità è il minimo a cui possiamo aspirare, se non fosse che a votare quell’articolo è stato lo stesso Parlamento che nel 2008 ha cancellato la legge 188 del 17 ottobre 2007.
Molte sono state le iniziative promosse dalle donne dopo l’abrogazione di questa legge, compiuta in nome della semplificazione, assemblee, petizioni, giornate di mobilitazione, fino alla costruzione della campagna “188 firme per la 188”. L’introduzione dell’articolo 155, che reintroduce nell’ordinamento il tema dell’abuso delle dimissioni in bianco, nominandolo esplicitamente, è merito del lavoro politico di queste donne, dentro e fuori il Parlamento, e della crescita di un sentire condiviso nella società civile, più che della caparbietà della Ministra.
Nel V capo del provvedimento, sotto la voce “Ulteriori disposizioni in materia di mercato del lavoro”, oltre alle norme contro le dimissioni in dibissioni in bianco, ci sono anche il mini congedo di tre giorni continuativi di paternità obbligatoria e i buoni per pagare le baby sitter in alternativa alle aspettative facoltative per maternità.
L’articolo 56 che stabilisce il congedo di paternità obbligatoria è stato definito da più voci una conquista simbolica, perché decreta che “la maternità non è un fatto solo di donne”, come ha ripetuto la Ministra in diverse occasioni. Pare che per un padre trascorre 3 giorni in tre mesi con suo figlio/a sia già molto, anche perché possono essere tre giornate continuative basta che due siano “in sostituzione della madre”.
Un anno fa il Parlamento europeo avanzava una proposta di tutt’altra portata: un congedo di paternità obbligatoria che fosse di minimo 15 giorni, non alternativo al congedo di maternità di 20 settimane, delle quali sei obbligatorie dopo il parto. Tutti e due i congedi pagati al 100%. Non solo per i padri naturali, ma anche per quelli adottivi.
Una conquista simbolica dovrebbe favorire la condivisione dei compiti di cura, ma tre giornate di permesso non possono farlo e neanche l’altra novità, il voucher di 11 mesi per una baby-sitter individualmente scelta. Con il voucher si vuole alleggerire il carico di cura materno appaltandolo a una baby sitter, con l’obiettivo di spingere la madre lavoratrice a tornare subito al lavoro, quando il figlio ha 3-4 mesi. La sudditanza all’imperativo della continuità del lavoro vince sulla ministeriale sponsorizzazione dell’allattamento al seno. Ma almeno la svalorizzazione del rapporto fisico ed affettivo madre-figlio nel primo anno di vita poteva essere supplita da un congedo di paternità obbligatoria tale da lanciare una sfida alla redistribuzione dei ruoli e aprire uno spazio per la costruzione di nuovi rapporti di intimità tra padri e figli/e.
Tutte queste misure elencate, improbabile fiore all’occhiello della riforma del mercato del lavoro, sono insufficienti per essere definite azioni positive di Pari Opportunità o Diversity Management, perché non porteranno a nessun percettibile aumento dell’occupazione femminile né a concreti miglioramenti delle condizioni di vita di ventenni, trentenni e quarantenni che scelgono di assecondare un desiderio e sfidare l’aut aut.
Abbiamo bisogno di politiche di conciliazione più coraggiose per le madri e per i padri, che possano essere motore di cambiamento, per incidere sugli umori profondi di un paese che difende le madri e le famiglie solo attraverso la diffusione di slogan.
L’estensione della flessibilità negli orari e dei part time, l’allargamento dei congedi parentali, il potenziamento degli asili pubblici e aziendali, la promozione di una cultura della genitorialità (maternità e paternità, genitorialità eterosessuale e omosessuale, per coppie e single, per cittadini stranieri e nativi), il rafforzamento dei sostegni economici ed assistenziali sono gli strumenti di conciliazione che migliorebbero davvero la vita di chi compie uno degli atti più audaci e generosi che si possa realizzare in tempi di crisi e precarietà: partorire e accudire nuovi esseri umani.
Monica Pasquino, Presidente di S.CO.S.S.E.
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