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Il sistema coworking negli spazi pubblici in dismissione: #idee per una repubblica romana

Da Team Scosse
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comune-infoIl discorso sul coworking e sulle nuove forme di organizzazione del lavoro nasce dalla domanda su quale sistema economico e quale modello di impresa dobbiamo realizzare per rispondere alla tendenza degli ultimi trent’anni: lo spostamento della ricchezza dai salari ai profitti e dei profitti dagli investimenti alle rendite.
Gli spazi dedicati al coworking stanno crescendo rapidamente in Europa. In alcuni paesi, come Francia e Belgio, lo Stato incentiva l’apertura di spazi condivisi di lavoro per creare occupazione e facilitare l’avviamento del percorso professionale dei giovani. In Italia l’esperienza del coworking è ancora in fase embrionale e sconta il pegno della tradizione culturale nostrana: considerare l’iniziativa imprenditoriale per un giovane come una opzione residuale rispetto al lavoro dipendente.
Con la mia associazione, l’anno scorso ho avuto la fortuna di incontrare il discorso politico del Quinto Stato, una piattaforma del lavoro indipendente che riflette sulla condizione atipica e precaria dei nuovi lavori e che propone il coworking come come exit strategy per affrontare le patologie del lavoro contemporaneo.
Da subito ho cercato di creare di favorire l’incontro e la contaminazione tra il Quinto Stato e il Comitato per l’uso pubblico delle caserme, a cui partecipavo da un paio d’anni, prima come coordinatrice di un Circolo di Sinistra Ecologia Libertà, poi come cittadina di un territorio in cui insistono due grandi caserme e un forte militare. L’obiettivo dell’incontro era ambizioso: inventare risposte di prossimità alle difficoltà di chi condivide i problemi del Quinto Stato (precarietà, lavoro nero, sfruttamento economico, isolamento professionale).
In qualche mese, il Quinto Stato e il Comitato per l’uso pubblico delle caserme hanno elaborato un progetto di coworking nelle ex caserme, che ora si può leggere e votare on line, e che abbiamo presentato anche al candidato alla Presidenza della Regione Lazio, Nicola Zingaretti.
Il progetto di coworking nelle ex caserme si rivolge ai lavori di carattere intellettuale e immateriale, che non necessitano di una postazione lavorativa fissa, e all’artigianato, che ha sempre rappresentato la spina dorsale dell’economia italiana e che rischia oggi di scomparire.
Ma possiamo spingerci anche oltre il coworking in singole ex caserme e pensare a un sistema coworking ramificato al punto da creare un mercato parallelo e che potrebbe trovare vita nell’immenso patrimonio pubblico (edifici abbandonati, ex mercati o distretti produttivi) che il sindaco Alemanno sta offrendo ai grandi costruttori e ai gruppi finanziari (gli stessi grandi elettori delle ultime tre giunte comunali).

Nella Repubblica romana – il modello di città che con le prossime elezioni comunali possiamo realizzare – ogni quartiere delle grandi città ospiterà uno spazio di coworking, autonomo dagli altri nella definizione dei progetti alla luce dei territori sui quali insiste, mentre le istanze generali e il collegamento tra le sedi saranno garantite da processi assembleari democratici. Questi spazi saranno uno degli strumenti con i quali le nuove generazioni si riappropriano della ricchezza sociale che è stata loro saccheggiata.
Saranno luoghi produttivi e insieme casematte – come le ha definite recentemente Sandro Medici, candidato sindaco a Roma – in cui riunirsi per lavorare, sperimentare pratiche mutualistiche e apprendere. Fondati sulla solidarietà intergenerazionale, interculturale e interprofessionale, ricopriranno in parte anche le funzioni delle antiche case del popolo e delle camere del lavoro.
In particolare, questo sistema di casematte della nuova repubblica romana avrà l’obiettivo di:

  • promuovere le pari opportunità di accesso, permanenza e progressione di carriera nel mercato del lavoro per le donne, i cittadin* stranier* e per tutte le persone che sono più soggette a marginalizzazione e discriminazione; favorire i processi di empowerment personali e professionali, ridurre i ritardi culturali, promuovere l’autoformazione soprattutto delle persone con poche opportunità investendo sul capitale umano con lo scopo di valorizzare e utilizzare pienamente il contributo di ciascuno/a;
  • sviluppare progetti collettivi che abbiano finalità sociali e culturali e che possano, attraverso la loro realizzazione, incentivare il lavoro e lo start-up di nuove forme di imprenditorialità e di associazionismo, così da promuovere lo sviluppo locale e stimolare il tessuto economico del quartiere;
  • promuovere un’idea diversa della cultura e della fruizione culturale (promozione di eventi culturali e artistici aperti e gratuiti); incentivare un nuovo modello di produzione culturale nel tentativo di superare la logica del profitto privato; sostenere le produzioni indipendenti e i giovani artisti;
  • incoraggiare tutte le forme di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, contrastando la natura più intima del lavoro postfordista, che pone un aut aut tra genitorialità e lavoro e consiste in un generale processo di femminilizzazione delle attività operose.

Gli spazi pubblici in disuso saranno dati in affidamento ad associazioni no profit attraverso procedure trasparenti e il reclutamento dei coworkers sarà fatto attraverso call pubbliche. Il denaro necessario a ristrutturare questi spazi potrebbe venire dai fondi europei Fesr: il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale.
Questa nuova e concreta possibilità di rivoluzionare il lavoro immateriale a Roma rivitalizzerà i quartieri, produrrà ricchezza, lavoro e cultura, stimolerà l’autogoverno della cittadinanza e innescherà processi di trasformazione delle istituzioni locali creando un’altra res publica, basata sull’autonomia, sull’innovazione e sulla partecipazione.

 

pubblicato il 05/02/2013 su http://goo.gl/Ft6E6
Pubblicato in Approfondimento
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