Il problema di Roma è il Teatro Valle
Non è il buco di 867 milioni di euro del Comune; non è l’ombra del fallimento della Capitale che si legge sul volto del Sindaco; non è l’aumento della disoccupazione giovanile, della cassa integrazione e del numero di cittadini che mangia rovistando nei rifiuti.
Non è l’apertura di una nuova discarica a Falcognana e non è il centrosinistra al governo cittadino travolto da guerre intestine. Non è la sanità al collasso con posti letto tagliati, liste d’attesa chilometriche e blocco del turnover. Non è il piano straordinario di vendita degli immobili comunali inutilizzati per far cassa.
Non è neanche la crescita del gioco d’azzardo e il ritorno significativo del consumo di eroina, il problema della Capitale è il Teatro Valle occupato e la neonata Fondazione Teatro Valle Bene Comune.
Nei pochi giorni che sono seguiti alla conferenza stampa di presentazione della Fondazione Teatro Valle Bene Comune, decine di articoli sono apparsi nei quotidiani più diffusi a Roma.
Almeno cinque gli articoli di Il Messaggero (giornale diretto dal nipote di Dell’Utri, Virman Cusenza, e di proprietà di Francesco Gaetano Caltagirone, il più ricco e potente imprenditore romano), che si sommano a quelli pubblicati del giornale di destra il Tempo e ad altri pezzi apparsi sul Giornale (diretto da Alessandro Sallusti), su Libero (diretto da Maurizio Belpietro) e sul Foglio di Giuliano Ferrara.
Il Valle tradisce, rinnega e offende la cultura. Da quando è occupato, al Valle mancano i contenuti artistici. Lo storico teatro romano cade nel degrado e nei camerini spuntano i sacchi a pelo. L’illegalità trionfa, protetta da Stefano Rodotà e Ugo Mattei.
Di questo tenore sono le affermazioni che si susseguono tra le pagine della rassegna stampa raccolta dagli occupanti sbalorditi.
A mio parere, tra tutti, vince il podio della creatività l’articolo “Rodotà e il teatro dell’illegalità”, secondo il quale il Valle sta provocando la chiusura di decine di sale romane, grazie alla sua concorrenza sleale (Nino Spirlì, il Giornale, 21/9).
Nel centro di Roma irregimentato dalle regole del profitto, crea caos uno spazio libero, dove si fanno quotidianamente assemblee e si incontrano gruppi di ricerca. Tanto più se di quel teatro si parla in tutta Europa e se la sera, passando di là, capita di incontrare tanti intellettuali e artisti, che sostengono l’occupazione mettendoci la faccia – come nei mesi passati hanno fatto Toni Servillo, Silvio Orlando, Andrea Camilleri, Emma Dante, Daniele Silvestri, Elio Germano, Valerio Mastandrea, Ascanio Celestini e altri ancora.
In queste settimane, sulla carta stampata si stanno spendendo migliaia di parole per costruire un’operazione di discredito che ha tre obiettivi basilari.
Il primo è la demolizione delle esperienze che contrastano i fenomeni di privatizzazione delle città aprendo spazi pubblici e recuperando l’antica idea della civitas.
Nell’antico teatro di Roma, come nell’Ex Coloroficio che sta per essere sgomberato a Pisa, togliere le ragnatele dagli immobili abbandonati e aprire laboratori di autoformazione, di sperimentazione artistica e di sport popolare significa depotenziare i movimenti in difesa dei beni comuni, come quello che ha vinto sulla privatizzazione dell’acqua, e i percorsi nati dalla Costituente dei beni comuni che sfidano il potere dei palazzinari e la cecità delle istituzioni.
Colpendo la Fondazione Teatro Valle Bene Comune, si colpisce l’alleanza tra i movimenti e i giuristi che vuole imporre le ragioni del diritto vivente, espressione di ciò che si muove nella società, e rompere i confini della legalità per imporre un nuovo criterio di legittimità.
Il secondo obiettivo è del tutto strumentale: usare la nascita della Fondazione Teatro Valle Bene Comune per mettere in difficoltà la Giunta capitolina, accusandola di proteggere pericolosi rivoluzionari, mentre in realtà è in primis l’Assessora alla cultura del Comune di Roma, Flavia Barca, a non prendere posizione, priva com’è di un modello culturale e di un’idea di città da proporre.
Il terzo obiettivo riguarda lo sfruttamento del lavoro e il pilastro della precarietà, non solo nel settore della cultura e dell’arte. Al Valle la lotta per il diritto alla città – per usare i termini del geografo statunitense David Harvey – serve a coltivare e a federare cittadini liberi e consapevoli, lavoratori oggi meno disposti di ieri a trasformarsi in schiavi con impieghi in nero e stipendi da fame.
In questi mesi di occupazione si è insinuato l’eversivo germe dell’autonomia nel lavoro e della libera circolazione dei saperi – io ho politicamente a cuore il Valle Occupato anche, o forse soprattutto, per questo aspetto.
Lo statuto della Fondazione Teatro Valle Bene Comune disegna i contorni di un sistema economico che segue criteri di equità nella redistribuzione della ricchezza generata e la defiscalizzazione dei costi del sistema cultura e della ricerca.
Il Valle, sì, è il problema di Roma. Se rimanesse in vita un prototipo di lavoro culturale autonomo e indipendente, emancipato dal clientelismo e dall’opportunismo politico, scrostato dalla mercificazione artistica e libero dai monopoli della conoscenza, molte lobby culturali, finanziarie e politiche avrebbero vita dura.
pubblicato il 03/10/2013 su http://goo.gl/nMmLwT
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