Il genere, la scuola e l’adolescenza
Il meeting “Educare alle differenze” e le buone pratiche per prevenire il bullismo
di Marta Di Cola e Monica Pasquino
Negli ultimi trent’anni la scuola italiana è diventata sempre più un mondo di donne: più iscritte, più docenti, più coordinatrici e dirigenti, e anche migliori risultati per le studentesse rispetto ai coetanei maschi. Questo, però, ha solo in piccola parte aiutato la cultura delle pari opportunità e un’ottica di genere a entrare nella progettazione didattica e nelle attività scolastiche. Così accade anche nella formazione accademica: gli studi di genere all’università sono affidati alla buona volontà di alcune/i docenti, e rarissimamente le/i future/i insegnanti incontrano queste tematiche nei loro percorsi di laurea. In questo modo si continua a proporre una pedagogia e un sapere neutro dal punto di vista dei ruoli sociali che caratterizzano donne e uomini per storia e cultura. Eppure ruoli, stereotipi e pregiudizi condizionano le/gli insegnanti di domani quanto le vite delle/degli studenti che incontreranno.
Quest’assenza porta la scuola italiana a essere deficitaria di messaggi e norme di genere? Assolutamente no. Troviamo riferimenti espliciti e impliciti all’educazione di genere, sia nelle aule dei più grandi e nei programmi ministeriali (Sapegno 2014), sia nelle classi elementari, piene di stereotipi sessisti (Biemmi 2010) come negli albi illustrati dedicati ai più piccoli/e (Associazione Scosse 2015).
La cultura di genere di cui è intrisa la scuola pubblica italiana propone per donne e uomini ruoli sociali, economici e professionali non paritari, che possono alimentare discriminazione e bullismo verso chi non si conforma alla cultura dominante e far nascere disagio e La cultura di genere di cui è intrisa la scuola pubblica italiana propone per donne e uomini ruoli sociali, economici e professionali non paritari, che possono alimentare discriminazione e bullismo autosvalutazione. Questo è vero soprattutto in una fase di crescita e trasformazione come l’adolescenza, quando è più evidente il disciplinamento di comportamenti, attitudini e atteggiamenti inerenti all’essere uomini o donne. D’altra parte, vale la pena sottolineare quanto l’acquisizione dei modelli tradizionali di genere, sempre instabile e provvisoria, inizi ben prima della fase adolescenziale e influenzi l’immaginazione, il sentire e la personalità già delle/dei bambini che, per usare termini cari alla filosofia, appaiono come risultato di questo processo contingente d’individuazione, reso possibile dall’essere in relazione e dal linguaggio.
Che cosa s’intende con “educazione alle differenze” e quali sono le sue ragioni?
Per rispondere a questa domanda basterebbe considerare i progetti formativi e i percorsi di sensibilizzazione sulle identità di genere che, negli ultimi anni, si sono moltiplicati dentro e fuori le scuole. Laddove i confini tra identità e differenza s’irrigidiscono, ecco che il sesso di nascita e l’orientamento sessuale diventano fattori discriminanti nella definizione di “giusto” e “sbagliato”: ciò cui è necessario conformarsi per essere accettati, da una parte, e dall’altra ciò che va nascosto, allontanato, punito, pena l’esclusione.
Chi lavora e crede in una scuola pubblica, plurale e inclusiva per definizione, non può ignorare l’esistenza stessa delle differenze e non può accettare che il loro potenziale si disperda, o peggio ancora sia abbandonato a se stesso, messo sotto silenzio, stigmatizzato.
In questa prospettiva, la decostruzione di modelli stereotipanti rappresenta la chiave di volta per la prevenzione di comportamenti violenti e discriminatori, come ben testimonia la grande affluenza alla prima e alla seconda edizione di Educare alle differenze, il 20–21 settembre 2014 e il 19–20 settembre 2015.
Educare alle differenze
Se alla prima edizione di Educare alle differenze hanno partecipato più di seicento persone e una rete di soggetti collettivi assai composita, la seconda edizione è stata ancora più ricca per presenze ed eterogeneità. Nel 2015 sono oltre settecento i/le partecipanti – esclusi relatori e relatrici – che hanno compilato la scheda di registrazione, dalla quale si evince una presenza significativa della Regione Lazio (Roma 53%, territorio laziale 8%) e di una rappresentanza consistente di tutto il territorio nazionale (39%). Molti/e lavorano nella scuola a vario titolo e/o sono genitori (64%), altri sono insegnanti (36% in totale, con prevalenza di scuola primaria e secondaria di secondo grado, fanalino di coda la partecipazione di docenti universitari).
La grande partecipazione alla seconda edizione di Educare alle differenze, organizzata dall’Associazione SCOSSE, Il Progetto Alice e Stonewall e co–promossa da altre 250 organizzazioni su scala nazionale, testimonia l’esistenza sull’intero territorio italiano di saperi e competenze diffuse, e di soggetti singoli e collettivi che sviluppano progetti efficaci e di qualità per la valorizzazione delle differenze, nell’assenza quasi totale di fondi e in un clima di generale ostilità culturale. Tanta ricchezza restituisce un quadro del Paese e della scuola molto diverso da quello che le campagne d’odio e di diffamazione sulla cosiddetta “ideologia del gender” hanno cercato di dipingere negli ultimi mesi.
La crescita e la diffusione di Educare alle differenze nasce anche dal bisogno diffuso di fare rete, di condividere conoscenze e strumenti, di stabilire sinergie e di costruire una voce collettiva capace di promuovere, valorizzare e difendere queste attività e la loro capacità di trasformare la società nella direzione dell’equità, della pluralità e della piena democrazia.
Le due partecipatissime plenarie sono state l’occasione per trovare delle parole comuni per rispondere agli attacchi che, da troppo tempo, singoli/e insegnanti e associazioni subiscono da associazioni clericali di destra e da gruppi d’ispirazione neofascista, ponendo le basi per un discorso propositivo sul futuro della scuola italiana su questi temi.
Parole comuni tra soggetti diversi: insegnanti, attivisti di associazioni LGBT, associazioni a vocazione educativa, gruppi femministi, studiose e studiosi, operatrici e operatori di centri antiviolenza e di poli culturali, che hanno riconosciuto come elemento cruciale l’assunzione delle differenze tutte – di genere, di orientamento sessuale, di provenienza culturale, di diversa abilità – come bene indivisibile.
“Usavo le parole frocio, finocchio, culattone per tenerle lontano da me. Dirle agli altri perché smettessero di invadere tutto lo spazio del mio corpo”. Édouard Louis, Il caso Eddy Bellegueule.
Alla retorica della paura, la plenaria di Educare alle differenze ha risposto mettendo al centro i desideri di chi vive la scuola ogni giorno, l’autodeterminazione e la libertà d’insegnamento e il diritto per studenti e studentesse di crescere in un ambiente laico e aperto alle pluralità, capace di contrastare dinamiche e atteggiamenti che stigmatizzano le differenze e alimentano fenomeni di esclusione e violenza. Non sono le falsità sulla masturbazione infantile a spaventare tanto i detrattori dei progetti di educazione alle differenze, ma la paura della straordinaria possibilità che ha l’agire educativo di trasformare i rapporti tra i generi in termini di giustizia, pluralità e inclusione: la paura che nelle scuole crescano cittadini e cittadine liberi e uguali, in dialogo con la propria identità e il proprio orientamento sessuale oltre gli stereotipi e i pregiudizi, dotati del senso critico necessario per opporsi alle ingiustizie e alle discriminazioni.
L’articolato programma della seconda edizione si è declinato in 9 diversi tavoli per fascia di età (0–6, 7–11, 12–14, 15–18, educazione permanente) e tematici (intercultura, altre abilità, politica e diritti, fuori programma) in cui più di 50 laboratori formativi si sono susseguiti nell’arco di una giornata. Era una scommessa difficile che è stata vinta non solo grazie alla grandissima partecipazione, ma soprattutto grazie alla consapevolezza, la responsabilità e la generosità intellettuale che ha contraddistinto tutte e tutti i partecipanti.
Il primo filo che ha unito il lavoro di tutti i tavoli è stato quello dell’autoriflessione: la necessità di partire da sé, dal proprio vissuto, dalla consapevolezza del proprio portato culturale e valoriale, degli stereotipi che esso trascina, più o meno coscientemente, con sé. La necessità quindi di un’autoformazione permanente. Il contrario esatto di quelle pratiche d’indottrinamento che vengono contestate attraverso vere campagne di disinformazione a chi pratica l’educazione alle differenze.
Un secondo elemento importante, direttamente connesso al primo, è stata la centralità assunta, all’interno di molti degli interventi proposti, di una pratica laboratoriale, di metodologie attive di coinvolgimento, di esperienze che permettessero ai partecipanti e alle partecipanti di mettersi direttamente in gioco. Ne sono emerse cose belle ed emozionanti, come nel laboratorio Omofobia e bullismo: linguaggi, metodi e pratiche, condotto nel focus 12–14 dall’Associazione Scosse e dalla Libreria Tuba: ponendo i/le partecipanti di fronte a casi concreti ha permesso di elaborare, in piccoli gruppi, strategie, drammatizzazioni e interventi per affrontare momenti critici.
Cifra metodologica complessiva di tutti i laboratori è stata la consapevolezza che le differenze non si “insegnano” – nel senso deleterio d’indottrinamento o imposizione di verità – ma che alle differenze ci si educa attraverso l’ascolto di sé e dell’altro, attraverso il dialogo con le emozioni e con il corpo, fino a trovare le parole e gli strumenti adeguati per decostruire modelli sociali e stereotipi. Su questo molto ci ha insegnato l’esperienza di una scuola primaria di Empoli i cui bambini e bambine – nel corso di un percorso educativo per la scoperta delle differenze – hanno coniato il termine “costrizione” per definire le situazioni sociali in cui i loro comportamenti erano stigmatizzati in base a un preconcetto legato al maschile o al femminile, per poi scoprire insieme alla fine del percorso l’esistenza della parola “stereotipo”.
Identità di genere
e violenza scolastica
Dentro e fuori le scuole si stanno diffondendo sempre di più programmi che mirano a riflettere e decostruire i modelli stereotipanti, per prevenire bullismo e violenza partendo dall’educazione ai sentimenti e dall’ottica di genere, forti della consapevolezza che l’identità di genere e l’identità sessuale non sono monoliti né dati naturali, ma una mescolanza di attribuzioni e auto–attribuzioni, frutto di relazioni e dell’immagine di sé negoziata con i modelli sociali introiettati. Uno di questi progetti è Personaggi in cerca di autore, ideato dall’Associazione SCOSSE, con il contributo della Regione Lazio, Direzione Cultura e Politiche Giovanili (avviso pubblico “IO SCRIVO!” D.D. G17022 26/11/2014, CIG ZDF1400167).
Personaggi in cerca di autore si sviluppa in linea con la “Raccomandazione CM/REC (2010) n. 5 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri sulle misure dirette a combattere la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o l’identità di genere”, e con la “Strategia Nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere” (2013 –2015) del Dipartimento Pari Opportunità e dell’UNAR (l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni). Sua caratteristica è leggere il bullismo come dispositivo complesso, innervato di aspetti sociali, relazionali e psicologici, e vedere come protagonisti soggetti in divenire, plurali, portatori di posizionamenti, istanze e obiettivi variabili. In questo progetto, l’esperienza delle vittime, degli artefici e degli spettatori della violenza scolastica non è stata indagata solo come espressione di bisogni profondi o effetto di dinamiche preesistenti, ma soprattutto nella sua valenza formativa, come tappa di costruzione dell’identità di genere in quel periodo nodale che è l’adolescenza e la pre–adolescenza.
Alla retorica della paura, “Educare alle differenze” ha risposto mettendo al centro i desideri di chi vive la scuola ogni giorno, l’autodeterminazione e la libertà d’insegnamento e il diritto per studenti e studentesse di crescere in un ambiente laico e aperto alle pluralità. Impostato e svolto secondo una metodologia laboratoriale, il percorso di Personaggi in cerca d’autore si è nutrito delle emozioni, degli affetti e dei rapporti familiari, delle paure e anche stereotipi legati ai ruoli di genere e alle difficoltà ad accettare le differenze (di cui tutti siamo portatori sani) dei ragazzi e delle ragazze di una classe di terza media.
Nel corso di un ciclo d’incontri pomeridiani, la scrittura – individuale e a piccoli gruppi – è stata per ogni ragazza e ragazzo la risorsa per dare forma al proprio personaggio immaginario, insieme alla fantasia, al gioco e al lavoro di squadra. Attraverso la costruzione e la riflessione condivisa su identità reali e immaginarie sono emerse aspettative per il futuro, rappresentazioni di genere, desideri e tabù.
Incontro dopo incontro abbiamo cercato, insieme alla classe, di mettere in discussione e modificare eventuali etichette o ruoli assegnati tra pari; ruoli che inevitabilmente creano senso d’inadeguatezza, minano l’autostima e condizionano negativamente la percezione dell’attuale identità personale e la costruzione di quella futura.
Due le destinazioni del nostro viaggio Personaggi in cerca d’autore: da un lato rafforzare le competenze alfabetiche funzionali e le capacità d’uso della lingua – sia dal punto di vista recettivo che produttivo – potenziando le capacità creative e dialettiche degli studenti; dall’altro stimolare la riflessione dei ragazzi e delle ragazze su come si vedono e s’immaginano da grandi, anche da un punto di vista di genere e professionale, indagando sentimenti e relazioni. Speriamo così di aver stimolato la capacità di riconoscimento del proprio e dell’altrui sentire, l’empatia e quindi la competenza emotiva e la capacità di costruire relazioni positive all’interno e al di fuori del gruppo classe.
Dalla esperienza svolta sono nati un e–book, disponibile gratuitamente sul sito, dal titolo Personaggi in cerca d’autore. Sentimenti, relazioni, stereotipi e paure in terza media, e la proposta di un workshop da svolgere all’interno della seconda edizione di Educare alle differenze, dedicato agli atti di prepotenza e abuso che si fondano sull’omofobia, anche in considerazione di quanto la violenza scolastica ai danni dei ragazzi gay sia poco studiata nella letteratura dedicata al bullismo (Burgio 2012). I bersagli principali del bullismo omofobico sono adolescenti che apertamente si definiscono lesbiche o gay o transessuali, adolescenti che «sembrano» omosessuali sulla base di una percezione atipica degli atteggiamenti manifesti o dello stile, adolescenti con fratelli, sorelle o genitori omosessuali, adolescenti che frequentano amici apertamente omosessuali, adolescenti che hanno idee apertamente favorevoli alla tutela dei diritti omosessuali.
Breve focus sul
bullismo omofobico
Un banale litigio tra due compagni di classe durante la ricreazione viene siglato da un inequivocabile “Simone FROCIO DI MERDA” scritto sulla lavagna; una ragazza, schiva e apparentemente poco interessata all’altro sesso, viene costretta da un gruppo di compagni a baciare un ragazzo; una dodicenne confessa l’amore per la compagna di banco e viene isolata dalla classe, creando agitazione nei genitori della ragazza amata.
Come affrontare situazioni così complesse, con azioni che siano allo stesso tempo tempestive ed efficaci?
Se trovare una risposta non è né semplice né scontato, insieme ci hanno provato formatrici e formatori, insegnanti e genitori che hanno partecipato al laboratorio Omofobia e bullismo: linguaggi, metodi e pratiche, a cura di SCOSSE e della libreria Tuba di Roma.
Da dove iniziare? È essenziale innanzitutto non aver paura di chiamare le cose con il proprio nome. Gli esempi illustrati non possono in alcun modo essere liquidati come casi di “ordinario bullismo”: dire “frocio di merda” non equivale in alcun modo a dire “imbecille”. Le parole definiscono e rivelano universi simbolici che hanno una capacità pragmatica di diversa intensità. Dire è anche fare. Si può fare bene o male, in modo più o meno marcato.
La violenza che abbiamo evocato si esprime indubbiamente in forme differenti (verbale, fisica, psicologica), ma c’è un filo rosso che le unisce e identifica come la stessa cosa: l’omofobia.
Come affrontare l’omofobia in classe? Non fare finta di niente e non cedere al silenzio: minimizzare e normalizzare possono rivelarsi controproducenti, rischiando di non cogliere i reali contorni del fenomeno. Ci troviamo di fronte a un tipo di violenza specifica, generata da un pregiudizio omosessuale endemico, che chiama in causa «una dimensione nucleare del sé psicologico e sessuale» (Lingiardi 2009).
Cosa fare, una volta riconosciuta la matrice omofobica dell’atto di bullismo?
Il confronto tra esperienze e approcci differenti ha avuto l’indubbio merito di evidenziare numerose criticità, ma anche di stabilire dei punti fermi.
Non fare finta di niente e non cedere al silenzio: minimizzare e normalizzare possono rivelarsi controproducenti, rischiando di non cogliere i reali contorni del fenomeno.
Definire interventi a breve e a lungo termine: è fondamentale fare in modo che la violenza venga identificata e arginata nell’immediato, ma anche pensare a un percorso di crescita che abbia una prospettiva e chiami in causa la scuola come comunità.
Evitare un approccio cattedratico e partire da se stessi, mettendosi in gioco anche come formatori, non avendo paura di ridefinire il proprio ruolo: l’auto–narrazione e la narrazione collettiva sono un modo per mettere a fuoco emozioni e paure, ponendole in relazione al proprio vissuto e all’esperienza altrui come in un gioco di specchi.
Personalizzare, considerare chi si ha di fronte e non agire per astrazioni, ma partire dalle specifiche caratteristiche ed esigenze del gruppo classe: non si può strutturare un intervento se non in rapporto dialettico con gli studenti e le studentesse che hanno dato vita all’episodio o agli episodi in esame.
Non negare, ma valorizzare le differenze, liberandole dalle connotazioni negative che spesso accompagnano tutto ciò che devia dalla “norma”: è a partire dall’individuazione degli stereotipi e dei relativi limiti che si può costruire un discorso sulla diversità come possibilità e non come stigma.
E così, dopo la ricreazione, il professore entra in classe e trova scritto sulla lavagna “Simone FROCIO DI MERDA”. Le sue guance si colorano improvvisamente di rabbia. Si ferma un attimo a pensare cosa fare, se cancellare la scritta prima che i ragazzi e le ragazze rientrino in classe o affrontare la questione. Improvvisamente tutto è chiaro e sa cosa fare. Aspetta che tutti/e prendano posto e, dopo aver fissato il gruppo in silenzio per qualche interminabile secondo, si avvicina deciso alla lavagna con il gesso in mano. Cancella solo “Simone” e al suo posto scrive il suo nome, “Marco”. Non avrebbe impiegato quell’ora per parlare della scuola siciliana, ma avrebbe fatto qualcosa per conoscere meglio i suoi ragazzi e se stesso.
pubblicato il 31/01/2016 su http://www.laricerca.loescher.it/societa/1249-il-genere-la-scuola-e-l-adolescenza.html
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