Didattica a distanza in cattedrali nel deserto
Mercoledì 4 marzo era stato un giorno come tanti, forse un po’ più faticoso perché avevamo il compito d’italiano in terza. Parlo al plurale perché per lo scritto d’italiano ci preparavamo tutti/e come la nazionale di calcio prima della finale: “Oh, ricordatevi di mettere le acca ogni tanto e non scrivete frasi di venti righe ché poi perdete il filo e viene giù tutto il testo”; “Va bene prof, ma lei lo sa che io non uso la punteggiatura per principio”; “Tranquilla prof, a parte gli accenti e le doppie, vado forte!”.
Suonata la ricreazione mi sono affrettata ad andare in sala professori per depositare quel pacco di compiti pieni zeppi di anacoluti, concordanze non-sense e licenze ortografiche affogate in un mare di virgole casuali, decisa a dimenticarmene per il resto della giornata. Uno sguardo distratto ai ragazzi e alle ragazze che mi seguivano per il corridoio e via di corsa verso l’uscita, senza guardarmi indietro.
A saperlo prima che quello sarebbe stato il nostro ultimo giorno di scuola, avrei avuto maggiore cura. Avrei usato tutto il tempo necessario per salutarli/e a uno a uno con il sorriso negli occhi, lasciandomi abbracciare senza fare storie, avendo dato a tutti/e le dritte giuste per affrontare quella che di lì a poco sarebbe diventata la nostra quotidianità: pandemia, quarantena, isolamento sociale, divanite acuta, iperattivismo incontrollato, labirintite da mouse e PS4, ipnosi da serie tv, bollettino della protezione civile delle 18 e didattica a distanza.
Lo so, sto esagerando, soprattutto quando parlo di didattica a distanza (DAD per chi ama gli acronimi): sarebbe più facile per me dare lezioni di alta cucina che trovare un senso profondo a questa pratica che per sua natura sconfessa anni di riflessioni su competenze, attivismo pedagogico, apprendimento collaborativo e compagnia bella.
Nel giro di 24 ore siamo ripiombati/e, volenti o nolenti, nel modello idraulico dell’insegnamento/apprendimento in cui io-prof produco contenuti e te li invio caricandoli su una piattaforma, mentre tu-studente ricevi, spacchetti, esegui e, quando sei molto fortunati/e, ci metti anche del tuo. È quest’ultima una possibilità concessa dal/lla prof-deus-ex-machina-illuminati/e, sia ben inteso.
Molte colleghe e molti colleghi storceranno il naso, pensando: “Parla per te! Io do compiti super-creativi e super-personalizzati. Io faccio fuochi d’artificio, non lavoretti d’idraulica!”. E io rispondo che certamente ogni prof di buona volontà l’ha pensato, sperimentando le infinite potenzialità della comunicazione mediata dal computer, mettendo alla prova applicazioni e software, giocando con le distanze per accorciarle. E non nego che tutto questo, in parte, funzioni e che sia anche divertente, ma solo se lo penso come soluzione emergenziale o come compendio alla didattica tout court. Se qualcuno però mi dice che questo è il futuro, inorridisco.
La DAD non è la svolta che la scuola italiana stava aspettando, come vorrebbe la vulgata del MIUR, ma la cartina di tornasole attraverso la quale si misurano contraddizioni e limiti, mentre ci si interroga su cosa sia la “scuola” oggi, per immaginare quella di domani.
Dall’alto di quale esperienza mi permetto di affermare tutto ciò?
Lo faccio dal basso, come mi piace fare da sempre con le cose che contano davvero. Insegno in una secondaria di primo grado tra l’estrema periferia e i paesini della campagna a sud-est di Roma: mi trovo in quella che una cara amica e collega definiva “una cattedrale nel deserto”, un non-luogo che è, allo stesso tempo, un osservatorio privilegiato su ciò che non va, ma anche su ciò che funziona bene nella scuola (e che per questo andrebbe preservato e implementato).
Che cosa manca nella DAD che troviamo in abbondanza in quella “cattedrale nel deserto”?
Prima di tutto, mancano i corpi e le storie che portano con sé, quella conoscenza che solo attraverso il corpo è possibile esperire: quando entri in classe lo capisci al volo se Alexander sta bene o meno, se Alina ha bisogno di un cenno con la testa, o di uno sguardo per mettersi alla prova con quel testo sfidante. In secondo luogo, manca il gruppo-classe, cioè quel sistema di relazioni nel quale, ogni giorno, studenti e studentesse decidono dove e come collocarsi (materialmente e non), definendo uno spazio di significazione aperto e in divenire: Sara e Carina, stando a qualche settimana fa, non potevano sopportare la vista l’una dell’altra, ma dopo il laboratorio di lettura in cerchio, guardandosi negli occhi, qualcosa deve essere successo se oggi chiedono di sedere l’una accanto all’altra (“Dai prof, solo per l’ora di storia, così dividiamo il libro!”)
È davvero possibile ricreare il gruppo-classe su una piattaforma come Zoom o Google meet?
Possiamo avere tutto, o quasi. Possiamo avere la somma dei/delle nostri/e studenti, approssimata per difetto: difficile che possa ricrearsi la magia della relazione educativa, quella tra docente-studente e quella, ancora più importante, tra pari. L’espressione, un po’ tecnica, “relazione tra pari” mi è sempre piaciuta, perché “pari” vuol dire “eguali”, non solo per età, ma per possibilità e valore. Ma nella DAD non ci sono eguali e scompaiono anche quei meccanismi che accorciano le distanze, sparigliano le carte, permettendo quella condivisione e quella costruzione di conoscenze tanto cara alle teorie socio-costruttiviste. Soprassediamo su quella parte della classe che non ha un PC o un Tablet a disposizione per lavorare, visto che nei prossimi giorni pare verranno distribuiti a pioggia dal generoso e avanguardista MIUR; passiamo pure sopra a tutti quelli/e che hanno finito i giga e non te lo dicono nemmeno perché si vergognano; facciamo finta di non sapere che ci sono famiglie in grado di supportare i figli e le figlie nella gestione delle lezioni online e dei compiti per casa, mentre altre che non sanno proprio da dove cominciare.
Mettiamo da parte tutto questo e pensiamo, anche solo per un momento (di più sarebbe insostenibile solo l’idea), a quella percentuale di studenti e studentesse che non sono mai stati raggiunti/e, di cui abbiamo perso totalmente le tracce. Quelli che venivano a scuola un giorno sì e tre no, ma che c’erano e si sentivano parte di qualcosa. Appartenevano alla 1C, alla 2A o alla 3B: e ora, a cosa appartengono? Che cosa sono? Come passano il loro tempo? Con chi condividono sogni, speranze e paure?
In una scuola come la mia, ad alto rischio dispersione già prima della pandemia, si tratta di un numero considerevole di studenti, che va da 1/4 per classe a quasi la metà, laddove è significativa la presenza di ragazzi/e della comunità rom.
Ma anche fossero soltanto un ragazzino o una ragazzina persi per strada, sarebbe forse meno grave? “La scuola non si ferma” è vero, ma spesso gira intorno ai problemi senza mai chiamarli con il loro nome, passa attraverso e lascia indietro, senza restituire lo sguardo. È accettabile questa perdita? Non siamo di nuovo caduti nel paradosso di Don Milani a 50 anni di distanza?
Dico grazie alla DAD perché mi ha mostrato che le politiche d’inclusione scolastiche sono state spesso tradotte in altri acronimi (PEI, PDP…), ma non in una visione organica di come realizzarla. La scuola è, ai tempi della didattica a distanza, un dispositivo che evidenzia e alimenta le differenze come svantaggio, non di certo come risorsa. Una scuola delle disuguaglianze che produce ingiustizia e marca le distanze tra chi può e chi no. È la scuola degli ineguali, senza relazione e senza futuro.
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