Cosa intendi per precarietà?
Trentacinquenne, giornalista scientifica free lance, partita iva, Silvia Bencivelli appartiene al mondo di chi commercia parole, di chi scrive su comissione, di chi vende creatività e competenza.
In Cosa intendi per domenica? La mia (in)dipendenza dal lavoro, il suo instant book autobiografico, con una prosa tagliente e un senso dell’umorismo sarcastico, Bencivelli racconta la sua appartenenza alla “fascia alta dei morti di fame” che vive di lavoro autonomo e la sua dipendenza dal lavoro indipendente. Quella dipendenza “che ti mette le radici tra i neuroni e ti impedisce di andare al mare anche se fuori ci sono trentotto gradi e non è vero che c’è ancora tanto lavoro da fare”, che ti fa avere poche relazioni e “una socialità da birra piccola”.
Bencivelli, come tante e tanti altri lavoratori autonomi di nuova generazione, alterna amore e odio, esaltazione e depressione nei confronti delle proprie condizioni. Confessa di amare la sua professione e di starci tutto sommato bene nell’iperattività “da status perenemmente on line”. Non vuole contratti più lunghi, né tanto meno a tempo indeterminato, né un posto di lavoro diverso da casa sua, né colleghi con cui fare tandem. Preferisce così, perché in questo modo “vivo del mio lavoro senza padroni”.
Il discorso pubblico su nuovi lavori e precarietà è contraddistinto, a volte, da un’esigenza di differenziazione che per esaltare la molteplicità che compone l’orizzonte della precarietà non si sofferma abbastanza sui tratti comuni, importanti per lo sviluppo di una soggettivazione comune e per la costruzione di iniziativa politica.
Da un lato siamo all’inferno, con la fascia più debole dei lavoratori precari (esempio tipico il call center del recupero crediti a 2,50 euro l’ora), flotte di vittime inermi, polli in batteria nostalgici del lavoro a tempo indeterminato e di un’epoca in cui la vita si strutturava intorno a rapporti umani e di lavoro stabili e in cui il tempo aveva una consistenza lineare sufficiente a costruire percorsi di identità.
Dall’altro siamo a un passo dal paradiso, si vive di creatività e conoscenza, si sventolano curriculum d’eccezione, lauree, master e dottorati, ci sono tante gratificazioni e un sano orgoglio professionale. Qui piace il lavoro che si fa, ognuno è artefice del proprio destino, l’assenza di certezze a lungo termine provoca solo rare insonnie notturne e la precarietà è tutt’altra bestia rispetto a quella che si vive all’inferno.
Si enfatizza la distinzione tra queste due condizioni del lavoro contemporaneo piuttosto che sottolineare come – dentro la diversità di ogni esperienza – l’assenza di diritti, ammortizzatori e tutele colpiscano tante le “finte” come le “vere” partite iva di nuova generazione.
Quasi rischiano di snobbarsi a vicenda i diversi mondi della precarietà, afflitti anch’essi dall’atomismo e dalla parcellizzazione dei nuovi lavori.
I tratti in comune sono tanti e fondamentali: bulimica ricerca di nuovi contratti (per prevenire momenti di magra), inaccessibilità ai sussidi di disoccupazione, redditi non adeguati alla quantità di ore lavorate, sfruttamento e ricatti, assenza di stabilità economica e di sicurezza sociale, solitudine e mancanza di una prospettiva condivisa, scarsa fiducia nella contrattazione e nelle lotte vertenziali.
In questo scenario, sarebbe più funzionale auto-rappresentarsi come parte della stessa condizione di ingiustizia, immersi nello stesso mutamento antropologico, altrimenti il nostro volatile presente ci permetterà al massimo la gestione individuale del rischio, ma non la possibilità di ottenere un futuro con più diritti.
Monica Pasquino, Presidente di S.CO.S.S.E.
Pubblicato sul Manifesto 9/7/2013
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