Ci manca la scuola che sarà
Oggi più che mai, il refrain che si sente correre di bocca in bocca è “ci manca la scuola”.
Tra distanziamenti sanitari e distanziamenti sociali che diventano divari, tra DAD e pervasività di schermi e intrattenimento frontale, marginalizzazioni di chi non ha strumenti o chi ha diverse possibilità e competenze in una società sempre più discriminatoria, classista e abilista. Nella liquefazione degli spazi e dei tempi di lavoro, tra genitori che si devono sostituire a insegnanti, insegnanti che devono garantire la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro per i genitori, tra auspici di co-partecipazione di operatori volontari, coinvolgimento del terzo settore, commistioni e confusioni tra scuole, centri estivi, ludoteche e oratori…
Come per il rodariano Lamberto, evocato ininterrottamente dalla comunità per mantenerlo in vita, si ripete come un mantra in ogni ambiente e anche un po’ in ogni accezione, perché la scuola non soccomba, perché ritorni ad essere come era, perché rinasca dalle sue ceneri, perché si trasformi e assuma nuove sembianze.
E dunque cos’è che ci manca di quell’istituzione in molte occasioni tanto avversata? Ci manca la scuola che sarà, che noi, con il nostro impegno individuale e collettivo, con le lotte, con la cooperazione, con la tenacia e con la lungimiranza -che fa tesoro di ciò che abbiamo conosciuto e degli errori fatti o lasciati fare- sapremo immaginare e ottenere per il prossimo futuro.
In questa fase in cui la casa è diventata il contenitore delle nostre vite, azioni e relazioni che sempre più ne assumono la forma, abbiamo timore che la scuola si plasmi su caratteristiche non sue fino a perdere le proprie.
Ci manca la scuola pubblica, senza ambiguità, che è garantita per tutt* e ovunque, aconfessionale, gratuita e accessibile a tutt*, che si interroga sulle sue infinite potenzialità, su nuove e vecchie sperimentazioni, ma anche che sa ripartire dai suoi limiti materiali per garantire effettivamente un orizzonte comune (non uguale o omologato) a chiunque.
Ci manca poter ascoltare la voce di chi ci lavora, di chi si farà carico del ritorno in classe, del rispetto delle condizioni di sicurezza, dell’emersione e della gestione di nuovi bisogni. Di chi dovrà gestire il proprio rischio e la propria preoccupazione. Ci piacerebbe sentire le loro esigenze, i loro dubbi e le loro priorità. Ci piacerebbe poterci mettere in ascolto di un mondo che si sta interrogando tra competenze, perplessità e paure: personale Ata, insegnanti, personale delle mense. Ci piacerebbe che la loro voce risuoni protagonista delle lotte e interna, non esternalizzata all’istituzione.
Ci manca la loro voce, persa tra gli echi di genitori chiamati a occuparsi di didattica, a ragionare sulla propria pelle dei tanti e differenti valori di quell’istituzione, persa tra quella di opinionisti e intellettuali più o meno generalisti, ci manca ascoltare un parlare con competenza ed esperienza delle peculiarità di un lavoro che è differente per fasce d’età, per caratteristiche dell’utenza e di chi lo pratica. In cui l’efficacia dell’uso dei video sia ragionata a partire dal benessere e dai bisogni ci chi ne fruisce, di chi lo produce, lo media, lo propone. Quel pensiero per cui la responsabilità della progettazione educativa non è di chi ha strumenti più accattivanti, voce più alta, o maggior potere, ma di chi nei contesti lavora.
Ci manca una scuola che riconosca il ruolo di tutte le figure al suo interno, che quando si parla di garanzie sanitarie e indicazioni pedagogiche sappia ripartire dal valorizzare le proprie risorse, dalle stabilizzazioni e internalizzazioni del personale docente. Rigettiamo qualunque offerta di sistematizzare la presenza di figure volontarie.
Ci manca una scuola, con i suoi spazi, che apra al territorio e dialoghi con esso, che da questo scambio produca ricchezza culturale per sé e per chi ne è al di fuori. Che in questo faccia valere tutta la sua inequivocabile e impari autorevolezza, che scelga con competenza e senza pressioni come e con chi rapportarsi, perché nessuna realtà altra si sostituisca a lei. Che diventi polo attrattivo, che ampli il suo orario con personale interno e stabile, retribuito, e non che mutui all’esterno servizi senza stringenti criteri di competenze ad associazioni di volontariato e realtà del terzo settore, magari a pagamento.
Ci manca una scuola in cui sia riconosciuto il valore educativo del tempo pieno e lo riconosca come una conquista su cui non si può tornare indietro, per garantire tempi lunghi e distesi per l’apprendimento che permettano a ognuno e ognuna di imparare con gradualità nel rispetto delle proprie specificità, per far crescere le relazioni tra pari e con le/gli insegnanti, per incentivare le pratiche laboratoriali e i momenti ludici, per dare forma a una vera comunità educante.
Abbiamo tanta esperienza anche femminista dei limiti e dei pericoli insiti in questo approccio, che non può non vedere le disparità nell’offerta che territori diversi possono portare a valore e nei rischi di ingerenze da parte di realtà esterne che da questo hanno solo da guadagnare in termini economici e di visibilità: reti territoriali e di cooperazione siano davvero e dichiaratamente al servizio di un rilancio della scuola pubblica, senza ambiguità.
Ci manca una scuola in presenza, dove si realizzino e si esprimano relazioni, possibilmente sfruttando i tantissimi edifici scolastici dismessi in seguito agli accorpamenti così come altri edifici pubblici inutilizzati, che faccia tesoro delle potenzialità dello spazio esterno, dell’esperienza all’aperto e della ricerca pedagogica che da decenni ne riconosce il valore, senza dimenticare mai il proprio mandato di poterlo offrire a tutt* in ogni contesto e condizione. Di farlo in un disegno rivolto a realizzare il benessere di chi ne fruirà: tanto di student*, quanto lavoratrici e lavoratori. Una scuola che rigetti attivamente una visione della società razzista, classista, abilista e sessista. Ci manca una scuola che si offra come contesto in cui ragionare della funzione e dei limiti della DAD e della fruizione di contenuti digitali: che sappia ragionarci a seconda delle età, che sappia riconoscergli una funziona meramente accessoria, integrativa o a sostegno di situazioni di necessità collettive e generalizzate o individuali, che faccia sì che al bisogno possa essere usata in modo efficace e non solo con chi dispone delle condizioni per fruirne. Accessibile a tutte e a tutti e straordinaria.
Ci manca una scuola dello 0-6 che veda riconosciuta la sua esistenza, la sua specificità, la sua urgenza educativa e sociale come luogo di formazione e crescita degli individui e della comunità e che non venga ricacciata nella funzione assistenziale di cui ancora tenta di spogliarsi dopo più di 2 secoli.
Una scuola che non favorisca la segregazione delle donne in ruoli di cura e riproduzione, che al contrario promuova il benessere, l’autonomia e renda visibile l’esistenza di tutti gli individui, che contribuisca alla decostruzione di logiche gerarchiche e discriminatorie su base di genere e orientamenti sessuali, che contrasti segregazioni di genere anche formative e professionali dalla primissima infanzia, ma che lo faccia anche rigettando una retorica per cui il tema della scuola riguarda in primis le donne, per cui lavoro produttivo e riproduttivo tornano ancora una volta a stringere il cappio della responsabilità e dell’onere intorno al collo di alcune soltanto.
Ci manca la scuola che non sia un progettificio, quella in cui si parte dalla lettura del bisogno e del contesto, al quale rispondono in primis con continuità figure competenti, interne, che conoscono bambin*, ragazz* e contesto alla luce di un rapporto stretto e quotidiano, che sappiano sfruttare al meglio per farlo tutte le potenzialità del territorio, in una visione organica, complessiva, di sistema e di lungo periodo.
Ci manca una scuola che forse non c’è mai stata, ma per cui sempre più continueremo a batterci.
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