L’anno breve di Caterina Venturini, cattiva maestra
Esce il romanzo di una cattiva maestra su una cattiva maestra e la sua esperienza in un liceo di ospedale. Un’ottima occasione letteraria per riflettere sulla scuola e sui docenti.
cattivamaestra yellow e Marta Di Cola di Scosse
Ida Ragone è una docente precaria di Lettere. In un settembre qualsiasi sceglie una supplenza annuale in una scuola-ospedale senza molta consapevolezza ma decisa a rimanere in città anziché spendere il suo anno scolastico in impossibili andirivieni dalla capitale verso un paesello mal collegato e lontano. Le sue classi sono composte di un solo allievo per volta, le sue aule sono luoghi improvvisati come sale visita dell’ospedale, mense adibite velocemente all’uso, corsie d’ospedale.
Così Ida passa le sue giornate nel liceo d’ospedale, tra chemioterapie, anoressie, bulimie, psicosi, forti disturbi del comportamento, primari frettolosi, psichiatri, coordinatori del progetto, colleghi routinari, infermieri e… ragazzi e ragazze nemmeno poi così diversi da quelli cui è abituata, ma sicuramente allacciati a doppio filo al senso della fine. Hanno unghie colorate, speranze inaudite, silenzi di ferro, rifiuti categorici, voglia di guarire e non cedere all’adulto nemmeno da malati. Ida impara a conoscerli e inventa un modo di trasmettere il sapere, con il senso della precarietà della relazione con i suoi allievi, più estremizzato che mai.
Un flashback affatto annunciato ci porta nell’adolescenza della Prof e semina indizi qua e là, che sbocceranno in chiusura del romanzo e sanciranno una bella verità: lasciarsi attraversare dalla vita fa di un docente qualsiasi una Cattiva Maestra.
Il lavoro della Venturini lascia di stucco, perché costringe a entrare nelle pieghe più recondite della precarietà: quella del lavoro e quella della malattia che strappa alla vita in un batter d’occhio.
Ida Ragone è una Prof che ci è subito piaciuta, poiché non cerca il facile consenso buonista del lettore. La Venturini avrebbe potuto usare la leva della compassione, trascinarci nel mondo del liceo d’ospedale e imporci un accalorato coinvolgimento emotivo, incontrando un gusto della lacrima molto in voga ma anche pericoloso quando si parla di scuola, precariato e relazione di apprendimento con l’adolescenza. Il pericolo sarebbe stato mettere da parte ogni tentativo di vedere che, nell’ospedale, la vera malata è la scuola pubblica.
La Buona Scuola bussa, in questo romanzo, senza indugi. La Venturini decide apertamente di farla accomodare e la affida a Melania Stiva, coordinatrice del progetto del liceo d’ospedale. Ha un sapore orwelliano la Stiva, il MIUR Big Brother che ci osserva e manda giù dall’alto dei cieli la manna che taglia le cattedre, vessa i fannulloni, toglie e taglia zavorre inutili, improduttive. Il personaggio terrorizzato dallo spreco, che non si spreca molto, però, in termini pedagogici. La Stiva arriva, rompe l’incanto della narrazione e se ne va. Arriva, segna l’errore e se ne va. Arriva, interrompe l’umano, fa di conto e se ne va. D’altra parte sta di guardia alla scorta della nave, col suo cognome? Quella che dispensa risorse/mansioni alla ciurma? Sarebbe stato facile per la Venturini qui far sì che Ida cedesse ad una misoginia difensiva contro la Stiva.
Ma Ida è una cattiva maestra, si sottrae a certi giochi servili al potere.
La Ragone è una Prof precaria: ogni anno — a settembre — cambia scuola, avendo l’occasione di riscrivere la propria storia, come nel giorno della marmotta. Ha di fronte a sé un anno breve, nove mesi. Nove mesi per capire, per cambiare, per ricominciare. Sono duecentosettanta giorni. È un battito di ciglia e un’infinità. In mezzo c’è tutto e niente. L’essere umano è una creatura adattiva, è cosa nota. Capita, quindi, che ci si finisca per abituare alla precarietà e che si faccia fatica addirittura a pensarsi al di fuori di essa.
Che cosa c’è infatti di più stabile e certo del cambiamento? Ida questo lo sa bene. Quello che non sa, che non si aspetta, è che sta per iniziare l’anno breve per eccellenza, non uno tra i tanti vissuti “in attesa”. Sarà l’anno dell’epifania di Ida, della ricerca di un centro nel flusso inarrestabile del tutto.
La precarietà in cui si muove è estrema, eppure questa cattiva maestra non cede al cinismo, proprio perché sceglie di attraversarlo, come quando tornando a casa stanca, ammira la bellezza delle fattezze fisiche del senegalese, sogna di pagarlo per farci del sesso, in una Roma di periferia che brulica di vita e crudezza.
Non è prevista una Prof così. Spiazza. È in grado di abbracciare troppa roba, forse, tra le sue membra? Precariato, precarietà, ma anche cinismo e coinvolgimento, disincanto e slancio della determinazione. C’è tutto, c’è tutta. Ci va intera a scuola, Ida. Ed esce intera. Senza mostrare mai, nemmeno per un attimo, i muscoli. Sobria.
La Venturini si affida alla paratassi schiettamente, in un passo del romanzo, per descrivere ‘le mansioni’, il freddo inanellarsi di azioni dell’insegnante routinaria. Riemerge con vigore l’ipotassi, quando la Prof va a fondo nel tessuto emotivo dei ragazzi, nel senso del suo lavoro e del loro apprendimento.
E mentre si legge, si disegna da sé un sorriso sulle labbra: ma dov’è il materno richiesto ad ogni Prof donna, in modo rigoroso e prestabilito, quasi fosse prenatale, ad ogni Prof donna? Quel materno di cui dobbiamo per forza, per nascita, per sesso, per obbligo, per cultura corrispondere? Venturini che ne hai fatto? Ida la Prof della differenza? Ci possiamo cioè concedere di essere tutto e non solo una parte? Forse addirittura di essere altro? Altre? Ida, la Prof della Differenza.
Ida cinica non è. Ida accoglie il sogno, consente all’adolescenza di esser tale anche in ospedale, sceglie di rompere le righe di sicuro quando, da cattiva maestra di Lettere, insiste sulla lettura e la comprensione delle parole dei grandi, lanciarsi diretti sul testo — già — non sul riassunto dell’opera e della vita dell’autore. Qualche adolescente rimane spiazzato. Ma non doveva essere l’adulto, in questa relazione, a rimanere a bocca aperta? E ancora: che cosa ne faremo di tutte queste parole? Che cosa c’è ancora da imparare?
C’è quella strana calma, quel senso di disfatta, una dolce pena che segna la fine dell’adolescenza di Ida. Eppure la porta rimane socchiusa. Qualcuno dovrà pure spiegare a Mattia, a Giulia, a Franco e a chiunque vorrà sapere che non sarà affatto facile, quando capiranno per la prima volta nella [loro] giovane vita di non piacere abbastanza al mondo, ma che nonostante questo, si può fare.
La Venturini decide proprio testardamente di percorrerlo, questo vortice a risucchio dell’adolescenza, così afferra Ida e le impone un lungo flashback. Si innesca un cortocircuito tra passato e presente, che produce una sospensione nella narrazione (L’inverno), inchiodando Ida ai suoi sedici anni, a guardare negli occhi la sua malattia. Ed eccola lì, la ragazza di “Torpigna” infiltrata in un prestigioso liceo del centro, che brucia calorie a colpi di flessioni notturne e ripete la lezione per bene, nell’attesa di dimostrarsi all’altezza. Eccola, con la sua amica e complice Ellis, l’incantevole inglese che le ficca due dita in gola e vomita tutto l’amore e la disperazione di un’adolescenza senza colore e senza calore.
Com’è possibile per Ida tornare a quell’età dove ogni sentimento è vissuto in modo assoluto e non esistono sfumature? In che modo riesce a sopravvivere a sé stessa e ai suoi segreti inconfessabili?
Rendersi “disponibile” è ciò che permette a questa Prof di insegnare e di imparare. È proprio questa la chiave di volta di tutta la storia: non si può pretendere di fare la differenza senza lasciarsi contaminare da altri linguaggi, senza mettere in discussione le parole che disegnano il nostro universo simbolico, annullando la verità dei corpi e della vita che pure li attraversa.
Caterina Venturini sembra abbia scritto questo romanzo per confermare un’altra volta che sì, s i p u ò f a r e.
pubblicato originariamente il 29(04/2016 su cattivemaestreblog
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